Quei paradisi perduti...

 

Tutti i grandi eroismi dell’umanità,
elevandosi al disopra della mediocrità terrena,
serbano un elemento incomprensibile;
ma appunto da quel tanto di incredibile che essa ha saputo compiere,
l’umanità attinge la fede in se medesima.

 Stefan Zweig, Magellano, 1938

 

Stefan Zweig scrive nel 1938 una biografia romanzata di Ferdinando Magellano dopo aver compiuto studi approfonditi sulle eroiche imprese dei grandi navigatori che nel passato hanno dedicato la loro esistenza alla scoperta di nuove terre e nuove civiltà.

Lo scrittore viennese afferma di aver sentito l’impulso a studiare e scrivere su Magellano dopo aver provato un forte sentimento di vergogna. In viaggio verso l’America Meridionale per un convegno, su di una nave munita di tutti in confort come un “perfettissimo albergo natante”*, Zweig intorno al settimo o all’ottavo giorno comincia ad accusare stanchezza ed impazienza per l’andamento monotono di quella traversata atlantica che pare non finire mai. Tutto questo a dispetto di una situazione di totale relax, in un viaggio durante il quale sono garantiti comodità e sicurezza e la possibilità di poter usufruire dei migliori servizi.

Ma l’opprimente sentimento di impazienza, l’incontrollabile ed inarrestabile senso di noia che lo scrittore prova, ci paiono oggi come dei veri e propri segnali di un cambiamento epocale che ha caratterizzato in definitiva la vita quotidiana contemporanea, e cioè l’esigenza di accorciare temporalmente le distanze spaziali perdendo gradualmente la capacità di poter apprezzare l’importanza del tragitto compiuto. Il senso di vergogna provato da Zweig scaturiva da una precisa considerazione: il paragone diretto tra la sua condizione privilegiata di viaggiatore e quella disagiata piena di rischi di “quei temerari che scoprirono gli immensi mari e il mondo intero per noi [...] ignari del percorso, perduti nell’infinità oceanica, sempre esposti ai pericoli, sempre in balia di ogni bufera o di ogni tormentoso disagio.”.

Per reazione, al crescente senso di colpa suscitato da questi pensieri, si sviluppa in lui un altrettanto impellente desiderio di saperne di più e di “conoscere meglio i primi campioni della lotta contro gli elementi, di leggere i racconti di quei remoti viaggi nei mari inesplorati...”. Rientrato in patria Zweig mantiene fede al proposito e tra tutti i protagonisti che ha potuto conoscere attraverso i libri studiati la scelta cade sul grande Ferdinando Magellano, quale massimo rappresentante degno di profonda stima ed ammirazione, il nuovo Ulisse che compì “l’impresa più grandiosa nella storia delle scoperte geografiche”.

Ora che l’intero globo terrestre è con assoluta precisione scoperto, misurato, navigato, scandagliato, fotografato, quindi completamente conosciuto (almeno per quanto riguarda le terre emerse, un altro discorso meriterebbero gli abissi marini) l’epoca delle scoperte geografiche ci appare come una grande epopea che rasenta il mito, quasi come fosse frutto dell’immaginazione, espressa con una serie di avvincenti romanzi epici e d’avventura, tentativi letterari che permettono al lettore di compiere meravigliosi viaggi esclusivamente con la suggestione che tali racconti sanno suscitare. Ma come lo stesso Zweig afferma: “Non vi è però nulla di meglio di una verità che appaia inverosimile!.”

Ed è proprio l’idea di viaggio e di verosimiglianza che ha spinto Francesco Garbelli a realizzare un intero ciclo di opere, diversificate nelle tecniche come nei contenuti, dedicate alla civiltà perduta di Atlantide. L’artista sceglie di occuparsi di un mito ancora avvolto dal mistero e da innumerevoli ipotesi sulla sua esistenza. Egli non si interessa di indagare sulla questione da un punto di vista archeologico, tutt’altro, è la suggestione e il fascino dell’avventura ad animare la sua ricerca estetica. In realtà il mito di Atlantide appare quasi come un semplice pretesto sul quale sviluppare un discorso che esula dalla mera rappresentazione descrittiva. Non importa sapere con certezza se sia esistita o no quest’isola e la sua civiltà, quanto indagare sulle riflessioni che tale leggenda evoca nell’immaginario collettivo da circa 2000 anni a questa parte.

Ma per ben capire la genesi della ricerca artistica di Francesco Garbelli dobbiamo fare un breve salto indietro nel tempo, cioè agli esordi artistici dell’artista verso la metà degli anni ottanta.

All’epoca Garbelli è tra i principali artefici e protagonisti dell’esperienza Brown Boveri a Milano, una fabbrica dismessa trasformata in laboratorio artistico temporaneo. Comincia a realizzare i suoi primi interventi installativi. All’imperante atmosfera di “ritorno all’ordine pittorico” imposto dalle esperienze della Transavanguardia Italiana, del Neo Espressionismo Tedesco e del Graffitismo Americano, i giovanissimi artisti guardano piuttosto a quel concettualismo, venato di ironia e provocazione, dei primi anni ’60, al lavoro di Pino Pascali, Alighiero Boetti e Piero Manzoni. L’esperienza della Brown Boveri dura una stagione e si conclude con una mostra che viene inaugurata nei primi mesi del 1985 concludendosi con la chiusura forzata per ordine del Comune e l’abbattimento della struttura.

Garbelli rivolge quindi la propria attenzione al contesto urbano e compie i suoi primi interventi di ‘public art’. La riflessione sulle caratteristiche linguistiche della segnaletica stradale lo inserisce di diritto in quella corrente concettuale che, vent’anni prima, appunto negli anni a cavallo dei sessanta/settanta, aveva caratterizzato un’intera generazione di artisti internazionali. Ma la differenza sostanziale che distingue l’artista da un semplice epigono di quella esperienza creativa sin troppo rigida e chiusa in schemi mentali derivati da certo strutturalismo e dai coevi studi sulla semiotica, è data dall’introduzione di un elemento che, oltre che in Piero Manzoni, Alighiero Boetti e Pino Pascali, compare anche nell’opera di Gino De Dominicis: l’ironia. In quegli anni, tra la seconda metà degli ottanta e i primi novanta, oltre a Garbelli operano anche artisti come Corrado Bonomi, Antonio Riello, Alessandra Galbiati, Dario Ghibaudo, Giovanni Albertini, Antonella Mazzoni, per il lavoro dei quali più tardi viene coniato il termine di Concettualismo Ironico Italiano (esattamente con la mostra del 1995 Ironischer Italienischer Konzeptualismus " presso la sede Telekom di Mannheim, artefice la Galerie Angelo Falzone della stessa città).

La metodologia operativa scelta da Garbelli per i propri interventi installativi urbani è contraddistinta da una sorta di tendenza alla pratica ‘abusiva’ pensata con raffinata intelligenza ed una lucidità progettuale da far impallidire le puerili azioni di certa street art contemporanea, fatta di insignificanti graffiti e di stickers/manifesti maldestramente affissi nei muri delle città.

L’artista coinvolge lo spettatore in un dialogo percettivo fatto di indicazioni ironiche e segnalazioni assurde, attraverso le quali mette in atto una destabilizzazione comunicativa che crea un pensiero, suscita un interrogativo in chi le fruisce.

La segnaletica stradale, quella serie di segnali codificati che stabiliscono le norme per un’ordinata viabilità automobilistica, è il primo e più vulnerabile bersaglio scelto dall’artista. Ne stravolge i significati creando dei segnali nuovi dai contenuti inaspettati. Che siano pittogrammi o precise scritte, il significato che tali segnali assumono diventa ‘autonomo’, svincolato dalla logica della comunicazione informativa. È interessante quindi vedere come nel 1987, con un semplice gesto, l’artista riesca a creare un vero e proprio intervento urbano di grande efficacia, come il segnale che indica all’automobilista la direzione per Atlantide ponendolo sotto le altre indicazioni alle varie città e con la freccia rivolta al suolo.

Altrettanto efficace, se non addirittura spettacolare, l’installazione temporanea ‘site specific’ che Garbelli effettua nel 1989 ad una delle entrate della stazione di Palestro della Linea Metropolitana 1 di Milano. L’artista copre il nome originale con la scritta ATLANTIDE e con l’indicazione specifica Imbarco Linea 1, mantenendone identica la grafica. E in effetti visto oggi l’intervento pare una vera profezia: attualmente viviamo costantemente sorvegliati e seguiti in ogni nostro movimento tramite le emissioni del cellulare, le connessioni ad internet o le registrazioni dei nostri pagamenti tramite bancomat o carta di credito, l’unico momento in cui scompariamo temporaneamente dai monitor e dalle intercettazioni è proprio quando ci ‘immergiamo’ nei sotterranei della rete metropolitana. Per tutta la durata del viaggio e della permanenza nelle stazioni è come se fossimo in una dimensione parallela, senza alcun legame col mondo esterno. Profetica allo stesso modo è la segnaletica di benvenuto a Venezia, nella quale il nome della città appare distorto come filtrato dalla superficie dell’acqua che la ricopre.

La maggior parte di questi interventi nel contesto urbano hanno avuto una durata temporanea dei quali ci rimangono solo documentazioni fotografiche.

La straordinaria capacità dell’artista di rinnovare il proprio linguaggio secondo le nuove esigenze espressive lo ha portato ad adattare la propria ricerca all’evoluzione del contesto storico e all’utilizzo di nuovi materiali a disposizione.

Per questa personale, dal titolo evocativo, Garbelli ha realizzato una sorta di campionario iconografico rivisitato della civiltà subacquea, inventando di sana pianta ciò che la suggestione del mito e le assidue letture gli hanno ispirato.

Da sempre appassionato lettore dei grandi romanzi epici e d’avventura ambientati tra le acque tempestose degli oceani (Tifone di Conrad, L’Isola del tesoro di Stevenson, Moby Dick di Melville, Robinson Crusoe di  Defoe, Il Vecchio e il mare di Hemingway...) Garbelli non vuole ricostruire fedelmente o provare, come un archeologo, l’esistenza della città sommersa, quanto proporre uno spunto di riflessione sulle condizioni attuali dell’ecosistema marino, con tutte le problematiche ambientali portate dal ‘progresso’ della civiltà occidentale e dallo sfruttamento “turistico” delle risorse marine.

L’epoca delle grandi scoperte compiute dai conquistadores spagnoli e portoghesi ha avviato un duplice risultato dagli esiti opposti: da una parte la graduale scoperta geografica dell’intero globo terrestre, dall’altra l’inizio del colonialismo e delle conseguenti distruzioni di intere civiltà e contaminazioni di terre vergini. Conseguenza inevitabile che ha segnato la quasi totale scomparsa della genuinità di quei paradisi terrestri.

L’Atlantide di Garbelli non è quindi quella raccontata da Platone nel Timeo e nel Crizia, non è quindi l’immensa isola in mezzo all’Oceano Atlantico sprofondata per le catastrofi naturali e nemmeno ciò che rimane delle piccole isole greche di Santorini. Ogni ipotesi archeologica non è importante, è necessario immaginare quel ‘paradiso perduto’ come emblema delle distruzioni che l’uomo sta praticando con tenacia e precisione in ogni parte del mondo, interferendo con la naturale evoluzione delle specie naturali ed aumentandone il rischio di estinzione.

L’affermazione di Zweig per cui “Non vi è però nulla di meglio di una verità che appaia inverosimile”, suona al contrario per la ricerca su Atlantide di Francesco Garbelli: dall’inverosimile (ed improbabile) mito della città sommersa si può riflettere sulla realtà che viviamo e che ci pone di fronte a quesiti dalla gravità inaudita ed assolutamente verosimile. Se dalla metà del XVI secolo sino alla fine del XIX era possibile, come fecero alcuni navigatori e in seguito tanti artisti, abbandonare il ‘mondo civile’ per recarsi nelle Isole del Pacifico alla riscoperta di una vita primitiva a diretto contatto con la Natura, oggi è praticamente impossibile in qualsiasi posto si vada non imbattersi nel solito villaggio turistico assolutamente in contrasto con l’identità del posto. Se Atlantide è l’isola perduta, la civiltà che le viene attribuita è un prezioso esempio da seguire di armonia totale con la natura. L’artista quindi vi immagina ed vi ambienta un viaggio, documentato da un proprio diario di bordo e da prove “tangibili” di questa fantastica avventura. Trova reperti che espone come reliquie di una civiltà subacquea pacifica ed immune dagli errori del popolo “terrestre”, che osserva e dal quale impara cosa “non fare”. Queste oggetti sono monete che, riferisce un resoconto del viaggio, “non hanno numeri e il loro valore non è stabilito dall’andamento fluttuante del mercato per cui non si ha l’esigenza di sancire il potere d’acquisto di una divisa rispetto alle altre”. Anzi, il testo spiega che ci sono delle eccezioni, ma che sono esclusivamente di natura estetica, alcune monete valgono sì più delle altre ma solo perchè più belle, “vuoi per l’originalità del disegno o per l’ottima resa del rilievo”. Le monete giacciono sulla battigia di questi veri e propri pezzi di mare che Garbelli, con grande maestrìa, realizza impastando sabbia e modellandovi sopra accuratamente la resina, che diviene acqua cristallina, dolcemente mossa da una leggera brezza marina che crea, con la luce radente, riflessi e trasparenze di eccezionale bellezza. Sono piccoli gioielli, un sincero omaggio alle meraviglie del mare.

Attraverso i disegni, dal carattere illustrativo, Garbelli rappresenta la sua idea di città subacquea dalle caratteristiche perfette, un armonioso insieme di costruzioni organiche ispirate alle migliori realizzazioni dell’architettura contemporanea, rielaborate e contestualizzate in un nuovo ambiente.

Infine, gli scritti ci rendono un immagine dell’artista simile a quella dei cronisti dell’epoca, senza i quali mai avremmo conosciuto le eroiche imprese del passato. Come afferma Zweig: “Che cos’è infatti un’impresa se nessuno la documenterà? Un avvenimento storico non è mai perfetto quando è semplicemente compiuto, ma soltanto quando viene tramandato ai posteri [...] Ogni figura rimane un’ombra e svanisce come un’onda varia nel mare incommensurabile degli eventi, senza il cronista che la cristallizza nella sua relazione, o senza l’artista che la riplasma con le sue immagini ”. Il resoconto scritto, in questo caso cronaca di un viaggio mentale, immaginario, diviene un importante tassello, un indispensabile elemento sul quale rifondare una cultura del mare che ne rispetti la natura in tutti i suoi aspetti, tanto necessario da far pensare all’artista una mostra composta esclusivamente da narrazioni, racconti che esprimano le suggestioni che il mito sa suscitare. L’idea del viaggio mentale, dello spostamento ideale, è quindi di fondamentale importanza per comprendere il significato di un lavoro che vuole recuperare quel senso, ormai quasi completamente perduto, di purezza della vita condotta in completa armonia con l’ambiente circostante, in una sorta di ritorno alla verginità della natura incontaminata, senza assumere atteggiamenti polemici, né esprimere una patetica retorica di tipo ambientalista.

 

Alessandro Trabucco



* Le citazioni sono tratte dal romanzo di Stefan Zweig, Magellano, Edizioni Frassinelli 1992 con traduzione a cura di Lavinia Mazzucchetti.